giovedì 12 gennaio 2023
martedì 10 gennaio 2023
L'uomo senza contenuti - R. Pecchioli
Ormai inoltrati nel Terzo Millennio dell’era cristiana – l’ultimo, se prestiamo fede ai soli segni materiali – ci troviamo al cospetto dell’uomo senza contenuto, pronto ad essere trasceso, superato dall’inquietante figura del transumano, il cyberuomo ibridato, guidato dalla macchina, invaso dagli apparati artificiali. L’uomo senza contenuto è un saggio di filosofia dell’arte di Giorgio Agamben che esplora l’estetica moderna vista con il prisma dell’autoannientamento dell’arte.
Un autoannientamento esteso all’intera condizione dell’uomo d’Occidente:
senza contenuto in quanto, diventato liquido, (la fortunata intuizione di
Bauman) ha perso la capacità di restare autonomo, solido, dotato di identità.
La natura dei liquidi è di evaporare se non vengono chiusi in un contenitore,
del quale assumono provvisoriamente la forma. La cultura dominante d’occidente
dapprima ha reso liquidi i suoi figli; quindi, la Pandora postmoderna ha aperto
il vaso. Il liquido si è sparso: una parte, sottoposta al calore, è evaporata
più in fretta o è passata allo stato gassoso. Fedele all’inversione
contemporanea e al rifiuto della natura, l’uomo-gas svapora verso il basso
senza accorgersi della decadenza, proclamata progresso, liberazione, risveglio
(woke).
I più si sono trasformati negli uomini di paglia di Thomas S. Eliot. “Siamo
gli uomini vuoti/siamo gli uomini impagliati/che appoggiano l’un l’altro/la
testa piena di paglia”. E poi: “figura senza forma, ombra senza colore/ forza
paralizzata, gesto privo di moto. (…) Gli occhi non sono qui. Qui non vi sono
occhi /In questa valle di stelle morenti/ In questa valle vuota”. Ancora più
gelido è il finale, con il verso ripetuto tre volte: “è questo il modo in cui
finisce il mondo. Non già con uno schianto, ma con un lamento”. Si sbagliava:
il nostro mondo non finisce con un lamento, ma con un applauso, tra una danza
macabra sul Titanic e una incomprensibile ansia di auto dissoluzione.
Privi di contenuti, cancellati da una tenace opera di decostruzione, gli
uomini d’occidente seduti sull’abisso ricordano un verso di Antonio Machado
sulla decadenza della Castiglia, la regione che fece della Spagna un impero:
Castilla miserable, un dia dominadora, envuelta en sus andrajos, desprecia
cuanto ignora”. Castiglia miserabile, un tempo dominatrice, avvolta nei suoi
stracci, disprezza quanto ignora. In entrambi i poeti, diversissimi per temi,
indole e idee, c’è il presagio della cancellazione, dell’assenza di contenuto,
tra uomini vuoti e un’ignoranza di sé esibita con stolido orgoglio. Senza
contenuti che non siano paglia, artificio o autoflagellazione, abbiamo
sacrificato tutto “a un’intelligenza operaia, fabbricatrice di un mondo, di una
società, di un tipo artificiale di uomo” (Marcel De Corte).
La cultura della cancellazione irrompe facendo della dissoluzione un idolo
positivo: non solo devono chiedere scusa i maschi bianchi eterosessuali, cioè
normali- eredi privilegiati della storia- ma è l’intera presenza umana sulla
terra a doversi ritrarre, sparire per lesa Gaia e lesi tabù gender e green. Un
impulso autodistruttivo che non può più essere colto dai suoi portatori perché
certi processi, una volta avviati, finiscono per camminare da sé, ossia-
terribile paradosso- produrre morte spacciata per civiltà, liberazione finale,
amore per l’”ambiente”, a cui è tributato un culto animistico.
In ambito anglosassone esistono movimenti d’opinione maschili che
propugnano e praticano la vasectomia per non correre il rischio di “fare”
figli, quest’orribile verbo meccanico applicato alla vita. Orrore di sé, smania
di estinzione, cupio dissolvi.
Forse rivedremo suicidi di massa di “risvegliati” (provvisoriamente),
convinti di salvare il mondo distruggendo se stessi, la razza e la specie cui
appartengono, il sesso e la civiltà in cui sono nati. La storia è testimone dei
suicidi di massa della setta di Jim Jones a Waco e dei seguaci di Charles
Manson, l’assassino dell’attrice Sharon Tate.
Il suicidio è fortemente consigliato in area anglosassone e in alcuni paesi
nordeuropei ad anziani, malati, depressi, ora anche ai poveri.
E’ la soluzione malthusiana proposta mezzo secolo fa dal Club di Roma di
Aurelio Peccei, uomo di fiducia dei Rockefeller. Generazioni deboli, fragili,
impaurite; mezzo secolo di indottrinamento e di distruzione delle identità-
sino a quella più intima e personale- miscelata con una fiacchezza indotta, di
carattere, volontà, capacità. Iniziarono negli anni Sessanta del secolo passato
con le droghe di massa in nome del “trip” il viaggio che allontanava dalla
realtà e intanto indeboliva il fisico uccidendo lo spirito, con la colonna
sonora di musiche appropriate e un inno mondiale, Imagine di John Lennon, summa
nichilista a uso delle masse giovanili. L’oppio somministrato ai popoli:
neanche questa è una novità del potere anglosassone, che scatenò guerre per
controllare il mercato delle droghe nel secolo XIX, destinate ai popoli
d’Oriente per indebolirli e colonizzarli.
Il geniale trucco moderno fu sostituire la realtà con i desideri indotti in
un mondo uniformato, dominato dall’ ideologia del medesimo. Opera l’alleanza di
un ircocervo formato dal capitalismo globalista e dal progressismo ideologico.
Gli uni la chiamano emancipazione, liberazione; gli altri- i danti causa-
sviluppo, consumo, modernizzazione. Il terreno comune è lo sradicamento: libero
è chi si disfa di legami e appartenenze, fluido nel mondo liquido, immerso nei
desideri anziché ancorato e fedele alla natura. Lo spurio cittadino del mondo,
uomo senza confini (anche sessuali), l’individuo emancipato e globale.
La straordinaria vittoria del liberal-capitalismo - diventato nichilismo
liberal– è stata convincere generazioni ribelli a combattere Dio, patria e
famiglia in funzione anticapitalista. Un errore fatale: quelli erano gli argini
di cui esso – religione materiale del denaro e dell’assenza di limiti- voleva
liberarsi per dispiegare tutta la sua potenza distruttiva. Il mondo marxista ha
trascurato la lezione del Manifesto comunista, in cui il fondatore aveva
identificato l’interesse capitalista a dissolvere “tutti i rapporti sociali
stabili e fissi, con il loro seguito di concezioni e di idee tradizionali e
venerabili”. Risultato: un’umanità dimidiata, fatta di consumatori compulsivi.
Lo capì un eretico di sinistra, Cristopher Lasch: “ci si libera dalla
tradizione solo per piegarsi alla tirannia della moda”. Libertà ridotta al
soddisfacimento di desideri continui, non importa se assurdi o bizzarri,
scegliendo tra prodotti, marchi, opinioni preconfezionate, diffuse dagli
influencer, adottate – qui sta il gioco di prestigio – convincendo generazioni
intere di essere le protagoniste di quelle scelte. Come è stato possibile un
tale esito dopo un bombardamento mediatico e culturale di oltre mezzo secolo
centrato sulla dogmatica dell’uguaglianza e sul mito del progresso?
Su quest’ultimo, è insuperata l’analisi di Michel Onfray in Teoria della
dittatura: “quello che a noi è presentato come un progresso è in realtà una
marcia verso il nichilismo, un’avanzata verso il nulla, un movimento verso la
distruzione. (…). Il culto che oggi tutte le persone che rivendicano a sé la
qualifica di progressista votano al progresso per il semplice fatto di essere
progresso sembra una genuflessione di fronte all’abisso (…) Il progresso è
diventato un feticcio e il progressismo si è trasformato nella religione di
un’epoca priva di esperienze del sacro, è diventato la speranza di questi tempi
disperati, la credenza di una civiltà senza fede”.
Enorme è il ruolo dell’ideologia del medesimo, ossia la trasformazione
dell’uguaglianza- un principio che esercita un potente fascino- in un concetto
astratto di in-differenza e di equivalenza generalizzata. La conseguenza,
rileva De Benoist, “è che se tutti gli uomini sono uguali, anche tutte le loro
opinioni si equivalgono” Di qui il relativismo e l’imposizione della neutralità
assiologica dello Stato, che diventa indifferenza morale e dominio delle idee
dominanti- rese tali dalla potenza dell’apparato mediatico e culturale della
società dello spettacolo, diretto, orientato, posseduto dall’oligarchia.
La scelta della neutralità, peraltro, è tutt’altro che neutra: vince chi
può gridare più forte, il più potente in quanto più ricco. Inoltre, le società
liberali sedicenti aperte, come teorizzò Karl Popper, “non ammettono che le
teorie antiliberali possano avere lo stesso valore di quelle liberali. E
l’opinione secondo cui tutte le opinioni sono uguali non impedisce di
mobilitarsi contro talune di queste, a cominciare da quella secondo cui non
tutte le opinioni si equivalgono”. (A. De Benoist)
E se lo sradicamento sradica tutto tranne il bisogno di radici, connaturato
all’essere umano, anche l’idea di uguaglianza fa i conti con una doppia
obiezione. Non regge alla prova dei fatti in quanto gli uomini sono
manifestamente diversi e perché perfino nelle società programmaticamente
egualitarie c’è sempre qualcuno più uguale degli altri – cioè privilegiato o in
posizione superiore – come dimostrò George Orwell nella Fattoria degli animali,
in cui, significativamente, il comando è conquistato dai maiali.
Allo stesso modo, l’uguaglianza si infrange nella “rivalità mimetica”,
teorizzata da René Girard. “Il concetto di desiderio è totalmente diverso da
quello di appetito: si vuole qualcosa perché la vuole anche l’altro, è il
principio mimetico che muove l’individuo nella sua socialità. “L’ideologia del
medesimo esaspera il desiderio di distinguersi con tanta più forza in quanto
proibisce la distinzione. Gli uomini hanno paura dell’indifferenziazione, segno
e prodotto della disintegrazione sociale. È l’uguaglianza, per quanto appaia un
paradosso, a generare il reciproco timore in quanto nega per principio le
differenze. Si ha più paura del Medesimo che dell’Altro.
Lo scambio presuppone l’Altro, altrimenti non si recita che uno stucchevole
monologo. Il dialogo presuppone l’alterità. Vi è poi, nella cultura dominante,
la tendenza a contrapporre la differenza, considerata bellicosa ed escludente,
alla diversità. Quest’ultima non è la bandiera rissosa, agonistica, di
minoranze l’una contro l’altra armate, ma la sintesi armonizzata delle differenze.
Una società dove ognuno è “come tutti gli altri” è un deserto soffocante in cui
ciascuno è fungibile, intercambiabile, privo di contenuto proprio: il sogno dei
totalitarismi di ogni segno e colore.
Inconsapevolmente, anche l’homo aequalis contemporaneo, nonostante
l’indottrinamento, trova comunque modi per distinguersi, per non essere, almeno
in qualcosa, “come tutti gli altri”. La pubblicità – maestra di psicologia
sociale – lo sa e agisce con sottigliezza su questo aspetto inestirpabile
dell’animo umano. Nel tempo in cui è obbligatorio essere “inclusivi”, si
moltiplicano i messaggi ad adottare abitudini e gusti “esclusivi”, ossia,
individuali, meglio se orientati ai consumi vistosi. L’espressione fu coniata
dal sociologo americano Thorsten Veblen per connotare stili di vita e
comportamenti che privilegiano il possesso di prodotti e oggetti destinati ad
ornarci, ma soprattutto a distinguerci.
I tatuaggi odierni ci sembrano rispondere alla medesima logica: sia pure
per moda, si vuole rendere unici se stessi, fabbricare una distinzione, marcare
una differenza personale. L’uguaglianza avvolge tutto (tranne il denaro) ma il
suo opposto rientra dalla finestra. Del resto, la differenza è un fattore di
resistenza, dunque di libertà. Più siamo uguali, più siamo malleabili,
minacciati dalla propaganda, dal condizionamento, dal comportamento gregario,
irriflessivo. Chi pensa ha un contenuto, è egli stesso un contenuto. Perciò ci
vogliono vuoti, impagliati, prodotti di serie, condizionati sin dall’infanzia,
deboli, fiacchi. L’uomo con un contenuto è un essere libero, autonomo, un
potenziale nemico del potere perché amico di se stesso e cercatore di verità.
Ogni occhio umano guarda, vede e percepisce in maniera distinta da tutti
gli altri: questa è la suprema bellezza della nostra condizione. Perciò ci
vogliono senza contenuto e senza occhi per vedere. È l’intuizione lirica del
poeta: uomini privati di contenuto, riempiti di paglia, svuotati di occhi per
vedere e anima per sentire: passanti nella terra desolata.
https://it.wikipedia.org/wiki/Federico_Capone
L'impegno patriottico e politico[modifica | modifica wikitesto]
Animato da vivo fervore politico sin da giovanissimo, entrò a far parte della Colonna Insurrezionale Irpina e con Giuseppe Garibaldi, poi suo amico, partecipò al raduno armato di Monterotondo ed alla spedizione per liberare Venezia combattendo anche a Mentana.
Intimo di molti patrioti campani (Matteo Renato Imbriani, Carlo Poerio, Francesco De Sanctis e Felice Cavallotti), nel 1881 rifiutò la candidatura a Deputato del Regno, ma nell'anno seguente accettò la proposta e venne eletto deputato della provincia di Avellino nell'ottobre del 1882 e poi nel maggio 1886 - appoggiato anche dal cugino giornalista Luigi Cassitto - col gruppo repubblicano garibaldino.
Distinguendosi sempre per valore morale, in occasione del terremoto di Casamicciola del 1883 accorse con i suoi operai per portare soccorso, mentre nel 1887 si prodigò in favore degli abitanti di Altavilla colpiti dal colera venendo egli stesso contagiato.
Con i proventi della sua azienda finanziò inoltre gli scavi archeologici di Pompei ed Ercolano, mentre nel 1871, su espressa richiesta dell'amico Garibaldi, gli inviò 10 sacchi di zolfo per il suo vigneto di Caprera.
Autore di opere politiche scrisse tra l'altro: Una bandiera (Avellino 1894),Ordinamento politico di uno Stato (Benevento 1894), Disegni di legge (Benevento 1894)
Pioniere dell'aviazione italiana[modifica | modifica wikitesto]
Recentemente riscoperto grazie ad alcuni studi e al saggio Storia del Viaggio e Turismo in Italia di Andrea Jelardi (Mursia, 2012), Federico Capone fu pioniere dell'aviazione scavalcando il primato di Enrico Forlanini che, com'è noto, nel 1878 riuscì a far volare per pochi istanti un prototipo di elicottero.
venerdì 6 gennaio 2023
Fedor Dostoevskij, I fratelli Karamazov.
Colui che mente, arriva al punto di non distinguere più nulla di vero né in se stesso né intorno a sé, e quindi finisce col non stimare né se stesso né gli altri. Non stimando nessuno, cessa d'amare, e per trovare, così privo d'amore, qualche cosa che lo interessi e lo distragga, s'abbandona alle passioni e ai grossolani piaceri, e scende nei suoi vizi addirittura al livello dei bruti: tutto questo per l'incessante mentire che fa al prossimo e a se stesso.